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RICORDANDO ERMANNO OLMI

NOTA

In questa pagina sono pubblicate alcune immagini scaricate dal web di cui non conosciamo l’autore. Qualora i soggetti proprietari fossero contrari alla loro pubblicazione potranno segnalarlo al webmaster  che provvederà tempestivamente ad eliminarle, oppure a inserire il nome dell’autore o del detentore del copyright sulle immagini stesse. Ricordiamo inoltre che questa pagina è stata creata senza fini di lucro a puro titolo didattico per la ricerca e lo studio delle opere realizzate da Ermanno Olmi durante la sua carriera di regista, sceneggiatore, scrittore, produttore, direttore della fotografia, montatore e scenografo ed è pertanto da considerarsi di libera fruizione .

“Quando un uomo è in vita, specialmente se è un uomo importante, tutti credono di conoscerlo bene, di sapere tutto: che cosa pensa, come vive, quali sono i suoi interessi… Ma appena quest’uomo ci lascia, ci accorgiamo di non sapere nulla di lui. Tutto diventa misterioso; la sua vita, la sua morte…

A testimoniare di questa vita e di questa morte restano però, per chi le sappia individuare, tracce innumerevoli che possono fornire un’immagine, un ritratto.

E’ stato un uomo: come quella di tutti gli uomini, la sua vita si è dipanata su due piani distinti eppure strettamente compenetrati ora per ora, giorno per giorno. Ha vissuto nell’azione e nella meditazione, ha operato e creduto, lottato e compreso.”

Ermanno Olmi, dall’introduzione alla sceneggiatura di “E venne un uomo” ( 1963)

L’ultima fotografia di Ermanno nella sua casa di Asiago, con un amico.
(foto di Elisabetta Olmi © 2018)
Ermanno Olmi per la presentazione del libro “Io e Cristo” di don Luigi Verzè (Ed. Bompiani)
Roberto Rossellini, Jean Aurer, Gillo Pontecorvo, Ermanno Olmi, Francois Truffaut, Piero Faggioni, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Luigi di Gianni nel 1959 a Venezia (Lapresse)
Ermanno Olmi alla scuola elementare Bodio, a Milano. Terzo in alto da sinistra.

Ermanno Olmi nasce il 24 luglio 1931 a Bergamo, in un quartiere chiamato la Malpensata – Io spero che quando sono venuto al mondo mia madre l’abbia pensata in modo diverso, ovvero che sia stata una bella pensata l’avermi messo al mondo! – Rimasto orfano di padre, morto durante la guerra, frequenta prima il liceo scientifico, poi il liceo artistico senza però portare a termine gli studi. Giovanissimo, si trasferisce a Milano, dove si iscrive all’Accademia di Arte Drammatica per seguire i corsi di recitazione; nello stesso tempo, allo scopo di mantenersi, trova un lavoro presso la Edisonvolta, dove già lavorava la madre. L’azienda gli affida l’organizzazione delle attività ricreative, in particolare quelle relative al servizio cinematografico.

Debutta nel lungometraggio nel 1958 con “Il tempo si è fermato” , due anni dopo Olmi conquista i favori della critica con “Il posto” , opera sulle aspirazioni di due giovani alle prese con il loro primo impiego. Il film ottiene il premio OCIC e il premio della critica alla Mostra di Venezia.

L’attenzione al quotidiano, alle cose minute della vita, viene ribadita nel successivo “I fidanzati” (1963), vicenda d’ambiente operaio venata d’intimismo. E’ poi la volta di “…E venne un uomo” (1965), biografia attenta e partecipe di Papa Giovanni XXXIII, priva di scontati agiografismi.

Seguono “Un certo giorno”, 1968; “I recuperanti”, 1969; “Durante l’estate”, 1971; “La circostanza”, 1974 e il pluripremiato “L’albero degli zoccoli” (1977), Palma d’oro al Festival di Cannes. Il film rappresenta uno sguardo poetico ma al tempo stesso realistico e privo di gratuite concessioni sentimentali al mondo contadino, qualità che ne fanno un assoluto capolavoro.

Nel frattempo si trasferisce da Milano ad Asiago e, nel 1982, a Bassano del Grappa, fonda “Ipotesi Cinema”; parallelamente realizza “Cammina cammina”,  la favola dei Magi. In questi anni gira molti documentari per la Rai e alcuni spot televisivi. Segue una grave malattia, che lo terrà a lungo lontano dal lavoro.

Il rientro avviene nel 1987 con “Lunga vita alla signora!”, premiato a Venezia con il Leone d’argento; otterrà il Leone d’oro l’anno seguente con “La leggenda del santo bevitore”, lirico adattamento (firmato da Tullio Kezich e dal regista stesso) di un racconto di Joseph Roth. A distanza di cinque anni, segue “La leggenda del bosco vecchio”, tratto da un racconto di Dino Buzzati. L’anno seguente dirige “Genesi: la creazione e il diluvio” all’interno del vasto progetto internazionale “Le storie della Bibbia” prodotto da RaiUno. Tra i suoi ultimi lavori “Il mestiere delle armi” (2001), “Cantando dietro i paraventi” (2003) “Tickets” (2005),  “Centochiodi” (2007), “Il villaggio di cartone” (2011), “Torneranno i prati” (2014) e infine il documentario sul Cardinal Martini “Vedete sono uno di voi” (2016).

La semplicità è la necessità di distinguere sempre, ogni giorno, l’essenziale dal superfluo.” E.O.

Da Bergman ho tratto la lezione della purezza, della costante tensione alla miracolosa autenticità dell’infanzia, l’età della vera innocenza e del contatto misterioso con ciò che ci sovrasta e ci rende davvero vivi […] La più profonda dimensione del suo cinema è aver intessuto costantemente un intenso rapporto con Dio. Ha rappresentato a pieno la vera ricerca di Dio.” Ermanno Olmi

“Che cos’è L’albero degli zoccoli? Io credo che sia una pagina tenera e forte, dolente e però anche consolante di storia patria. E quella storia, come pochissime altre volte al cinema, ha l’inconfondibile accento della verità. Questo significa che non appartiene alle maniere dei libri di lettura o dei testi di storia. E infatti il film dice, e però non attraverso quei contadini, servendosi di quei contadini come strumento, e invece per loro conto e a loro nome, che la qualità della vita non è in esclusivo automatico rapporto con la disponibilità di beni materiali.”

Paolo Valmarana

Original trailer “L’albero degli zoccoli” sub Eng

Ermanno Olmi is a key Italian filmmaker of his generation whose career spanned more than six decades. Updating the stylistic hallmarks of Italian neorealism to craft fiction films full of light and dignity, Olmi time and again captured the experience of work and family and expressed the churn of history with humor and grace. Known for his commitment to working with nonprofessional actors and to capturing the specific textures of the locations in which he filmed, Olmi, who started out as a self-taught documentarian, drew inspiration from his Catholic faith and from the social and cultural preoccupations of his native Lombardy region—personified by peasants in rural farming communities or by white-collar workers in the provincial capital of Milan. But Olmi, who passed away last year at age 86, was also always concerned with the political and economic systems underlying the social and physical environments in which his characters lived and dreamed.

photo by Mario Siringo ©
photo by Mario Siringo ©
photo by Mario Siringo ©

Winner of the Palme d’Or at the 1978 Cannes Film Festival, Ermanno Olmi’s The Tree of the Wooden Clogs is an epic portrait of peasant life in late nineteenth century Italy. Focussing on four families working and living on the farm of a landowner in the Bergamo region of northern Italy, Olmi presents a year in their lives, charting their daily activities and the natural flow of existence: birth, marriage, death, and the trials and tribulations in between. Shot on an abandoned farmhouse in Bergamo, The Tree of Wooden Clogs utilised locals of the region for its characters and had them speak in their Bergamasque dialect. The end results are truly remarkable, the apotheosis of Italian cinema’s neo-realism movement.

A holy grail for international cinephiles, lovingly restored and re-released in 4K, Ermanno Olmi’s The Tree of Wooden Clogs is a painterly and sensual immersion in late nineteenth-century Italian farm life that focuses on four families working for one landowner on an isolated estate in the province of Bergamo. Filming on an abandoned farm for four months, Olmi adapted neorealist techniques to tell his story, enlisting local people to live as their own ancestors had, speaking in their native dialect on locations with which they were intimately familiar. Through the cycle of seasons, of backbreaking labor, love and marriage, birth and death, faith and superstition, Olmi naturalistically evokes an existence very close to nature, celebrating its beauty, humor, and simplicity but also acknowledging the feudal cruelty that governs it. Winner of the Palme d’Or at Cannes in 1978, The Tree of Wooden Clogs is intimate in scale but epic in scope—a towering, heart-stirring work of humanist filmmaking.

“…già mentre scrivevo la sceneggiatura mi resi conto che la scelta delle musiche per questo film sarebbe stato un momento delicato: non avevo idee precise e anche le poche soluzioni che mi venivano  in mente non mi piacevano e le scartavo quasi subito. Durante le riprese mi tornava ogni tanto il pensiero di “quale musica” ma ogni volta rinviavo ad un altro momento aspettando che quasi fosse la musica a trovare me invece del contrario. E si può dire che è avvenuto proprio così. Per avere un’idea del ritmo di montaggio di certe sequenze di solito provo accostare alle immagini brani di musica qualsiasi e la cosa più o meno funziona sempre.. Questa volta, stranamente, il film rifiutava qualsiasi tipo di musica, come se le atmosfere della campagna e le vicende dei contadini appartenessero ad un mondo diverso (a una cultura diversa). Alla fine quasi per rassegnazione, provai con una Sonata per organo di Bach, e subito mi resi conto che avevo finalmente trovato la musica per il mio film.” E.O.

Italian director Ermanno Olmi, author and cameraman at the 31st Film Festival, talks of the film, “L’Albero degli Zoccoli” during a press conference the Cannes Film Festival. Prize-winning Italian film director Ermanno Olmi has died at the age of 86 Italy Ermanno Olmi Obit, Cannes, France – 17 May 1978
Photo by Piernello Manoni©
Photo by Piernello Manoni©
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Photo by Piernello Manoni©

Photo by Piernello Manoni©
Photo by Piernello Manoni

Photo by Piernello Manoni©

L’istantanea ritrovata: con Ermanno Olmi, Volterra 1980.
Pulizia di un vetro ottico armati con carta di giornale
Photo by Piernello Manoni©
Photo by Piernello Manoni©
Per approfondire la tematica di Camminacammina:

http://www.teche.rai.it/1983/12/presepe-ermanno-olmi-1983/

“La semplicità porta a favorire i momenti di lieta cordialità.” E. O.

Lunga vita alla signora – 1986
Lunga vita alla signora , 1986
Lunga vita alla signora, 1986
LA VITA E’ UN PO’ COME UN ALBERGO di TULLIO KEZICH

CASTEL IVANO (Trento) – Entrare nella vita è come diplomarsi a una scuola alberghiera. Il giovane deve imparare a servire in tavola, a obbedire, a sorridere ai clienti e a stare al proprio posto. O no? E’ questo il dilemma del film Lunga vita alla signora? Inutile chiedsre lumi all’ autore: sulle interviste di inizio lavorazione, Ermanno Olmi ha sempre le stesse idee da venticinque anni. Non bisognerebbe farle. E se per qualche motivo si è costretti, non bisognerebbe dire niente. E soprattutto non scoprire le carte, non impegnarsi: il più delle volte, cammina cammina, il film prende strade imprevedibili. “E a quel punto, se il film ha voglia di andarsene per conto suo, che cosa dovresti fare? Trattenerlo per il guinzaglio perchè quattro o cinque mesi prima sei stato tanto im prudente da dire: “sarà questo, non sarà quest’ altro”?”. E il soggetto? “Il soggetto non si racconta. Chaplin non lo raccontava mai: e non solo perchè era un artista geloso delle sue fantasie, ma perchè era un uomo d’ affari. Sapeva benissimo che scoprire il soggetto rovina il gioco. E’ un privilegio che non puoi togliere al pubblico , fa parte del divertimento. Al limite è come anticipare, in un giallo, il nome dell’ assassino”.

Olmi ha cominciato, lunedì 29, a girare il suo primo film dopo la malattia, ma già da una decina di giorni era al lavoro nel castello della Valsugana in cui ha ambientato l’ intera vicenda. Ha discusso il piano di lavorazione, controllato trucchi e vestiti, ritoccato l’ arredamento. Un po’ alla Fellini, cerca di cominciare il film senza che nessuno se ne accorga: in modo che i suoi interpreti, tutti non attori, ci si trovino dentro a sorpresa. Come se stessero facendo i provini? “I provini, questa volta, li faccio a me stesso. La malattia mi ha lasciato con tante idee e tantissima voglia di lavorare, ma alquanto impedito nei movimenti. Non posso afferrare la macchina da presa e girare personalmente. Non posso avventarmi come una furia sul set a correggere un interprete che sbaglia. Non posso fare tutto con le mani, com’ era mia abitudine. O vizio, dice qualcuno. Devo far correre gli altri, devo imparare a farmi servire. Come? Gridando dalla mattina alla sera. Prevedo che d’ ora in poi la raucedine sarà la mia malattia professionale”. Tuttavia il regista sta molto meglio. Ha un programma di lavoro intenso. Le riprese di “Lunga vita alla signora” fino a Natale, l’ edizione fino a Pasqua e oltre… “Finirò a giugno. Monterò il film a casa mia, ad Asiago, come le altre volte: un pezzetto al giorno. Non mi importa niente del Festival di Cannes, lo perderemo? Andremo a un altro festival. Capisco bene che queste cose servono, ma rappresentano una fase dell’ operazione dove io non c’ entro più. C’ entra chi deve vendere il prodotto: la Rai, la Sacis, il Luce. Sono stati tutti molto affettuosi con me, erano pronti a produrre questo mio nuovo film addirittura prima che fossi pronto io…

Per Emanuele Milano di RaiUno dovevo girare Ragazzo, che ora ho pubblicato in volume come con il titolo Ragazzo della Bovisa. Era una cosa lunghissima, otto ore per la televisione, e non me la sono sentita di ricominciare con una sgobbata del genere. Mi incuriosisce sapere come sarà accolto il libro. Ma il film lo farò senz’ altro; non una serie televisiva, un film di un paio d’ ore. Dall’ America s’ è fatto vivo, interessato dal titolo, perfino Dino De Laurentiis. E ho altre proposte: un film da girare nelle grandi pianure degli Stati Uniti, un altro a Parigi tratto da un classico della letteratura mitteleuropea. Stavolta con un attore, che però è anche un amico. No, non posso nominarlo perchè lui non ne sa ancora niente. E se poi mi dice di no?”. Sul set di “Lunga vita alla signora”, invece, nessun attore, ma quasi cento tipi presi dalla vita. Scelti come? “Con i soliti sistemi. Convocazioni nelle città e nei paesi dell’ area veneta, gli assistenti che raccolgono fotografie, lunghi colloqui personali: sull’ arco di due fasce sociali, quella dei padroni e quella dei camerieri. Non è detto però che nell’ assegnazione delle parti la provenienza sociale sia stata rispettata. Potrà capitare che un padrone faccia il cameriere e viceversa. Certo camerieri non si nasce, si diventa; e non è facile. Sono andato a vedere i ragazzi alla scuola alberghiera di Levico, ho imparato molte cose che non sapevo. Ho parlato con tutti, istruttori, apprendisti, cuochi. Avevo già scritto il copione, ma l’ ho riscritto pagina per pagina quest’ estate a Sabaudia. E’ proprio una sceneggiatura che lascia qualche spazio all’ improvvisazione, all’ idea dell’ ultimo momento; ma in gran parte è pensata prima, scritta a tavolino. Se Ragazzo della Bovisa era un romanzo, come l’ ha benevolmente definito il mio editore Raffaele Crovi, Lunga vita alla signora è una commedia… I medici mi avevano consigliato un film leggero, da girare dietro casa; e qui sono veramente a un’ ora di macchina o poco più da Asiago. Ma il film è tutt’ altro che facile: c’ è la scena di un banchetto, in onore di questa benedetta signora, affollatissima e laboriosa. La gireremo per ultima”. E la signora chi è? “E’ la padrona di tutta la baracca. E l’ interprete sarà una sorpresa. Dovrebbe avere 90 anni, ma io ho scelto una signorina che ne ha qualcuno di meno… Non so ancora, devo vedere i provini fotografici. C’ è anche un cane che mi preoccupa. Non un attore cane, i non-attori non sono mai cani: sono se stessi e basta. Dico un cane-cane, molto importante nella mia storia. Un cane che sembra incarnare il simbolo del Chateau-Hotel e invece…”. Perchè il film non è girato in un vero hotel? “Non è stato possibile mettersi d’ accordo con un albergo funzionante, le nostre date non collimavano con le esigenze della stagione. Allora mi sono ricordato di questa stupenda residenza, che è la casa avita di un celebre chirurgo milanese. Vi ero stato invitato qualche anno fa, insieme con mio fratello medico; mi è tornata in mente, ho telefonato al professor Vittorio Staudaker e lui me l’ ha messa a disposizione. La stiamo trasformando in hotel portando tavoli, sedie, tovaglie, argenteria, piatti, tutto quello che serve… Cercheremo di fare le cose in punta di piedi, ma si sa che un banchetto è un banchetto…”.

Esattamente 25 anni fa Ermanno Olmi diventò un cineasta famoso, alla Mostra di Venezia, con Il posto, storia semi-autobiografica di un giovane che arriva a Milano dalla campagna per conquistarsi un posto alla Edison. Non c’ è una certa analogia fra “Il posto” e “Lunga vita alla signora?”. “Sì e no. Nella prima versione, Il posto aveva un finale diverso: il ragazzo Domenico usciva dall’ ufficio, vagava per Milano e finiva sul Monte Stella a contemplare incantato un dèfilè di belle indossatrici. Mi decisi a tagliarlo perchè esprimeva qualcosa di confuso. Per spiegarmi ciò che volevo dire ci sono voluti 25 anni e un altro film. Domenico, che veniva da Meda alla conquista di Milano possiamo considerarlo un nipote dei contadini di L’ albero degli zoccoli, aveva in testa un’ idea semplice: assicurarsi un posto per tutta la vita e insieme fare un salto di categoria sociale”. E il ragazzo del nuovo film non cerca le stesse cose? “Apparentemente. Solo che non è un ragazzo degli anni ‘ 50, è un ragazzo degli anni 80”. Cioè, visto da destra, uno di quelli che non hanno voglia di lavorare? “Lo so che si dice così, ma non è vero. E’ vero invece che i ragazzi d’ oggi non pensano più soltanto al posto, alla ciambella di salvataggio, alla sicurezza dello stipendio. Oggi si soffermano, più o meno inconsciamente, sul significato di tutta la propria vita. Perciò sulla soglia di un primo passo, che può coincidere con l’ inizio dell’ alienazione capita a molti di esitare, di tirarsi indietro, di voler prolungare ancora un po’ l’ infanzia…”. E’ questo ritardo che racconta il film? “Anche. In chiave di commedia. Con molti “gags”. E con qualche risata se ci riuscirà di strapparla. Dalle malattie gravi, quando non ti ammazzano, si viene fuori con una gran voglia di ridere”. “IL RAGAZZO DELLA BOVISA” TRA SCENEGGIATURA E ROMANZO Sta andando in libreria in questi giorni “Il ragazzo della Bovisa”, il romanzo che Ermanno Olmi ha tratto dalla sua sceneggiatura per il film tv che avrebbe dovuto realizzare per la Rai. Per gentile concessione della editrice Camunia, anticipiamo in parte la post-fazione di Tullio Kezich. SUBITO, alla prima occhiata, ciò che distingue un copione cinematografico da un testo di narrativa è la pagina divisa in due colonne: a sinistra la descrizione degli ambienti e delle azioni, a destra il dialogo. La realizzazione del film rappresenta la sintesi della colonna di destra con quella di sinistra: più qualcos’ altro (l’ imponderabile, l’ inventato, l’ ad libitum) che si aggiunge per scelta o per caso nel corso delle riprese o al montaggio. Se questa è la regola, i copioni di Ermanno Olmi sono sempre stati l’ eccezione. Istintivamente il regista bergamasco evita la divisione in due colonne e realizza sulla pagina una specie di sintesi a priori. La sua scrittura non solo prefigura un progetto, ma è anche un vero racconto fondato su stilemi, cadenze e perfino astuzie che è impossibile non annettere alla letturatura. Questo film sulla carta può assomigliare o non assomigliare al film sulla pellicola: sono comparazioni da fare caso per caso, secondo varianti d’ artista legate all’ improvvisazione, e le lasciamo ai laureandi di cinema del XXI secolo. A noi compete solo di motivare, in breve nota, genesi forma e sostanza del presente romanzo breve o racconto lungo (o, meglio ancora, ricordo-racconto alla Saba) che non è l’ adattamento narrativo di una sceneggiatura, ma è stato scritto da Olmi e “alla Olmi” proprio come sceneggiatura del film Ragazzo. Otto capitoli per la Rete Uno della televisione di Stato (il titolo è stato cambiato in Ragazzo della Bovisa per non ripetere quello famoso di Pietro Jahier e quello , meno famoso in qualche modo storico, di un film inedito e scomparso di Ivo Perilli) stesi nella quiete della casa di Asiago, in mezzo al paesaggio nevoso, fra il Natale 1983 e i primi mesi del 1984. Doppiata da poco la boa dei cinquant’ anni, reduce dalla massacrante e per certi aspetti ingrata fatica del minikolossal Camminacammina, Ermanno guarda indietro e ricorda gli anni cruciali del passaggio dall’ infanzia all’ adolescenza. Questi anni, poco meno di un lustro, coincidono con la guerra, i bombardamenti, gli sfollamenti in campagna dalla nonna o in colonia, i primi amori, la morte del padre, i tanti pericoli sfiorati e il grande respiro del 1945 quando nei cortili Milano liberata ballò una sola estate. Nella primavera del 1984 il regista comincia la fase che nel cinema è chiamata di pre-produzione. Torna alla Bovisa, nella vecchia casa di via Cantoni, e la ritrova miracolosamente intatta. (…) Parallelamente all’ individuazione dei posti procede la ricerca dei personaggi, come sempre scelti non fra gli attori ma fra la gente vera. (…) Tutto è quasi pronto, nella consueta atmosfera febbrile che precede ogni inizio di lavorazione, ma Ermanno si scopre preda di strane inquietudini. E’ come se questo calarsi nel mondo della propria infanzia, che è anche una specie di discesa nell’ Ade, riaprisse ferite rimarginate, svegliasse sopite sensibilità e ansie che sembravano dimenticate. E una sera di giugno, quando manca solo un mese all’ inizio del film, l’ artista si sente ancora più torbido, avverte con trepidazione che le gambe non gli rispondono più, le braccia anche… Ha appena la forza di tirar fuori la voce per chiamare aiuto. La malattia, rara e allarmante, lo immobilizza a letto per mesi e mesi, prima riducendolo alle soglie della disperazione, poi obbligandolo a conquistarsi tappa per tappa una lenta ripresa a forza di esercizi e di volontà. Trascorrono così due anni difficili, silenziosi e credo anche eroici. Prima con un documentario sugli artigiani veneti girato con i ragazzi del gruppo di Bassano del Grappa, poi con la rasserenante regìa di La sonnambula al Teatro alla Scala, Olmi riprende il lavoro. Ragazzo è per ora accantonato: troppo lungo e laborioso, troppo irto di personaggi e spostamenti. Ma, in attesa che Ermanno Olmi lo possa far vivere uguale o diverso nelle immagini, ecco il romanzo che vive sulla pagina in maniera non certo provvisoria o effimera. (t.k.)dal nostro inviato TULLIO KEZICH

Six young men and women are whisked away to a mysterious, heavily surveilled castle in the mountains where they are being employed as the hired help for a swanky soiree, an elaborate dinner party for a coterie of intellectual and cultural elites presided over by an ancient, unsmiling noblewoman. But as the bizarre, oddly funereal night progresses, the young charges being to suspect there is something fishy going on—and it’s not just the enormous, grotesque flounder being served as the centerpiece. A subversive, Buñuelian send-up of one of Olmi’s recurring concerns—the conditioning of young people for the labor force—Long Live the Lady! is a rich and strange feast indeed. 35mm print from Istituto Luce Cinecittà.

“Una dignitosa povertà, cioè una non disponibilità d’abbondanza, che ormai accompagna la vita delle civiltà occidentali, è una grande scuola di vita.” E.O.

Da quel momento, i quattro mari furono sicuri, i contadini vendettero le spade e comprarono buoi per arare la terra e le voci delle donne rallegravano il giorno cantando dietro i paraventi”  

Yuentsze-Yunglun (1810) poeta cinese

(bozzetto di scenografia di Luigi Marchion
(bozzetto di scenografia di Luigi Marchione)

“Today, November 24, 1526, Captain Joanni de’ Medici and his men overtook the German mercenaries, the Lanschenets, before they could cross the Po river, and assaulted them so violently that they inflicted grave losses on the enemy.”
The Germans, under the command of General Zorzo Frundsberg, have swarmed into Italy with 15,000 foot soldiers, but they possess no artillery. Joanni de’ Medici, captain of the feared Black Bands, is famed as a great leader in battle and an expert in the use of weapons. He is in the pay of Pope Clement VII.
Marquis Federico Gonzaga, though officially on the Pope’s side, in reality is playing a double game and giving maximum aid to the Lanschenet armies. At the same time, Alfonso d’Este, the duke of Ferrara, gives in to the tempting offer of Charles V, the German emperor, and to show his gratitude secretly furnishes General Frundsberg’s officers with several pieces of artillery: four small cannons mounted on wheels. Hidden in a barge laden with salt, the four deadly weapons are transported towards Mantua.
Joanni learns the news that Frundsberg and his army, with Marquis Federico’s agreement, are about to set up camp near Mantua. He at once takes off in pursuit of the enemy, determined to corner Frundsberg and engage him in battle. Joanni leads his Bands in a surprise attack against the enemy, who disperses into the overgrown swampland. After a second furious skirmish, marked by the continual changes in strategy that Joanni is famous for, the enemy beats a fast, disorderly retreat.
On the field, during pauses in the battle, Joanni is overcome with nostalgic thoughts and memories of loved ones.
The Germans hide their four cannons behind the ruins of an old brick-kiln and wait for Joanni and his Bands to fall into their trap. Following the hoofprints which the enemy deliberately leaves on the freshly fallen snow, Joanni once more sets off after Frundsberg. When he reaches the brick-kiln he finds the German soldiers already lined up, waiting for him. General Frundsberg sits on his horse dangling his infamous golden rope, from which he intends to hang the Pope. After a violent battle, Joanni orders his men to retreat. But no sooner has he turned his horse around than a deafening boom drowns out the noise of shouting and clashing metal. Joanni is so surprised to find the Germans have artillery that he slows his horse. When he starts riding again, a fourth cannon shot hits him in the right leg.
Carried to Mantua, Joanni undergoes the amputation of his leg. His slow death agony begins, the death of a valiant youth.
“The illustrious Joanni de’ Medici, captain in the army of His Holiness Pope Clement VII, after an illness lasting four days, has died from a fever, after being wounded in the leg by an artillery shot in Mantua. The last day of November, 1526.”
Spurred by the premature death of Joanni de’ Medici, illustrious captains and princes of state issued an edict that the deadly firearms be banned from battle, nevermore to be used against man.

All’attacco in Costa Azzurra. Una settimana fa ci ha provato Giovanni delle Bande Nere, a Cannes; ora tocca a “Michele dalle auto rosse”, a Montecarlo. “I due si assomigliano”, assicura Ermanno Olmi, il grande regista de “L’albero degli zoccoli”. Giovanni de’ Medici, soldato di ventura passato alla storia col soprannome di Giovanni dalle Bande Nere, è il protagonista del film che Olmi ha presentato al Festival del Cinema di Cannes: “Il mestiere delle armi”. La Palma d’Oro è andata a “La stanza del figlio” di Nanni Moretti, ma il film di Olmi è stato apprezzato dalla critica e ha avuto un’ottima accoglienza nelle sale italiane. “Una bella sorpresa – sorride il regista -. Pensavo di fare un discorso solitario a pochi intimi che sulle panchine guardano passare la vita… Invece, forse, è passato il messaggio. Nulla, meglio della morte, insegna il valore dell’esistenza. I primitivi, costretti al buio della notte, apprezzavano l’alba più di noi”. Nella pace della sua casa di Asiago, al confine del bosco, Olmi vedrà domani il GP di Montecarlo. Tifando per Schumi che ha il cuore del suo Giovanni. Perché Giovanni de’ Medici e Schumacher si assomigliano, signor Olmi?
“Sono due modelli eroici. Nel Cinquecento l’esistenza era lavoro nei campi, sudditanza dei potenti, una precarietà che rendeva insignificante la vita stessa. Unica alternativa era ‘andare al soldo’, partire per la guerra e tornare con un gruzzolo. Oggi la ‘massa’ crea un analogo senso di solitudine, di perdita dell’identità da riscattare attraverso eroi che realizzano le nostre aspirazioni. Chi impugnava una spada voleva essere Giovanni, chi è al volante di una scassata Cinquecento: Schumacher”. Ma Giovanni scannava, Schumi guida.
“Giovanni all’ inizio era poco raccomandabile, a 12 anni ha già passato a fil di spada un uomo, ma quando, a 18, crea il suo primo esercito e ha la responsabilità di altri uomini acquista un rigore etico assoluto. Non concepisce il tradimento. Al prete che lo confessa in punto di morte dice: ‘In vita ho sempre cercato di fare il mio dovere di soldato, come avrei fatto il mio dovere di prete’. Combatte anche quando il Papa non gli manda i soldi, paga di tasca sua i soldati. Un calciatore che guadagna un miliardo al mese non ha la stessa concezione morale della sua professione: giocherebbe senza stipendio? Giovanni era di un rigore etico assoluto nel rispetto della ‘nobile arte della guerra’. Non era un guerrafondaio”. “Mestiere” non occupazione.
“Infatti. ‘Mestiere’ delle armi: nel senso medievale di ‘arti e mestieri’. Giovanni e Schumi sono i campioni della loro arte, quelli che sanno andare al limite: osare di più in battaglia, frenare più vicino alla curva. Nel momento in cui si calano l’elmo o il casco sanno di poter morire. È qui che più sono vicini. Eroi visibili oltre la corazza, uomini con un ideale. Un calciatore non rischia la vita, noi al volante possiamo limitare il rischio, Schumacher no: la sua arte gli impone di andare al limite. Come ogni arte. Anche Picasso avrebbe potuto dipingere la vecchina che esce dalla chiesa, invece ha spinto il pedale fino in fondo”. Giovanni viene tradito dalle nuove armi, Schumi invece cavalca la tecnologia.
“Non esiste Schumacher che cavalca da solo la tecnologia, ma una squadra di tecnici che cura ogni singolo aspetto della macchina. Deve fidarsi di loro. Da soli riusciamo a cavalcare il pallottoliere, la riga e la squadra, ma già davanti a un semplice pc io vedo facce stupite per una schermata imprevista. Alboreto è morto provando una nuova soluzione. L’ evoluzione tecnologica è sempre più veloce della coscienza che abbiamo delle nostre scoperte”. Giovanni a mani nude davanti a un avversario sapeva di essere il più forte. Schumi se sale su una Minardi perde.
“Un tempo l’eroe aveva più margine nella strategia. Giovanni, davanti a 16 mila Lanzichenecchi, non può cercare lo scontro in campo aperto. Sarebbe come guidare una Minardi contro una Ferrari. Allora usa tecniche di guerriglia, taglia i vettovagliamenti, sfrutta la neve della pianura padana, cerca di eliminare il loro capo. Oggi l’eroe Schumi ha meno margine, ma in quel margine il rischio è altissimo”. Schumi è al soldo degli italiani, che però faticano ad amarlo: snobba la nostra lingua, si mostra freddo.
“Ciò non toglie nulla all’eroe. Anzi. Greta Garbo era molto più amata delle dive di oggi, eppure aveva una vita privata inaccessibile”. Gli italiani amavano un Brancaleone come Irvine.
“Perchè più a portata di mano, puoi dargli una pacca sulla spalla in discoteca. Ma è un’altra cosa. L’eroe vero è Schumacher, infatti in corsa sono tutti con lui. Anche Giovanni era soprattutto temuto e rispettato. Erano le donne ad amarlo”. Schumi è tutto per Corinna, non dà mai scandalo.
“Dopo la corsa prende l’elicottero e in 5 minuti è a casa. La sua donna è ai box. Quella di Giovanni stava a casa a curare le terre, lui, in mesi di trasferta, incrociava prostitute e si trascinava dietro gentaccia. Aveva urgenze da marinaio”. A Jerez, nel ’97, Schumi cercò di fare fuori Villeneuve con una scorrettezza. Giovanni cos’avrebbe detto?
“Un pilota mette in gioco interessi enormi, non solo suoi; il sovraccarico di pressioni è un’autostrada per la corruzione della ‘nobile arte’. Non lo giustifico, cerco di capire la sua scelta. Giovanni serviva il Papa, anche lì ballavano interessi enormi, ma Giovanni era Giovanni. Io dico che quella sportellata non l’avrebbe mai data. Aveva un rispetto assoluto per le regole della sua arte”. Il sorpasso di Zeltweg a Barrichello?
“Stesso discorso. C’è in gioco l’ eroe, ma anche un mercato d’interessi. In un’olimpiade dell’automobilismo non sarebbe successo, ma all’olimpiade si va a piedi”. Giovanni serviva il Papa, Schumi serve Agnelli.
“I campioni migliori scelgono il miglior offerente”. Montezemolo è Federico Gonzaga?
“No, Federico è amico di Giovanni, ma poi lo inguaia, conosce gli intrighi politici. Montezemolo è il Duca di Urbino”. Montezemolo ha rifiutato l’avventura politica.
“Considero Montezemolo uomo di grande sensibilità. Ricordo che commentò con favore un mio elogio della lentezza e delle pause. La sua sensibilità non può abbassarrsi ai mezzucci della politica”. Il cinema nella guerra ci sguazza. Lei non indugia, inquadra l’eroe sconfitto.
“In guerra non esistono guardoni. A me interessa vedere come esce l’uomo dalla guerra. Gli uomini usciti dal Vietnam hanno cambiato l’America. La speranza è che l’uomo, in questo nuovo millennio, trovi finalmente forme più civili e etiche per farlo, come la competizione scientifica e culturale. Un tempo nacquero tornei, dove sopravviveva l’arte della guerra, ma non c’erano più morti. Oggi facciamo il contrario: carichiamo di violenza lo sport e si muore negli stadi. Penso a Tibullo: ‘Chi è lo scellerato che ha inventato la spada?’. È scellerato l’uso non la spada. Non è scellerata la macchina, ma chi imita Schumacher, ubriaco, dopo la discoteca”. Lo farebbe un film sull’ultima settimana di Senna?
“Non ho le conoscenze sufficienti per scegliere il soggetto, ma, ripeto, il pilota è l’eroe moderno e quindi m’interessa”. Il suo rapporto con l’auto?
“È mia moglie. Le dico: metti la freccia, gira, frena! È la mia vittima. Dopo la malattia, non guido più. Ho amato le moto: Lambretta, Vespa, ma arrivato alla Honda, mia moglie si spaventò: ‘O la vendi o divorzio’. Avevamo già 3 figli”. Segue la Formula 1?
“Sì. Tanti anni fa sono anche stato a Imola. Per problemi di bilancio domestico feci qualche carosello pubblicitario. Ripresi dei test della Ferrari. Giravano in pista Jacky Ickx e Chris Amon. Ricordo i meccanici che con dei forbicioni tagliavano le lamiere e le rimontavano. Provavano soluzioni aerodinamiche. C’era anche Enzo. Non parlava, ma capivo che non gli sfuggiva nulla. Alla fine parlammo di Rossellini, cui aveva appena dato una Ferrari per una gara di gentlemen, e mi domandò che macchina avessi. Risposi: ‘Una Citroën’. E lui disse due cose secche: ‘La Citroën è la macchina più sicura del mondo, la Cinquecento la più rivoluzionaria’”. Se Montezemolo la invitasse a un gran premio?
“Sarei emozionatissimo”. – Consiglia a Schumacher la visione del suo film?
“Si riconoscerà nell’animo eroico di Giovanni». Moretti ha vinto il Festival a anni 47 anni, l’età che aveva lei quando trionfò con “L’ albero degli zoccoli”.
“C’era in gara anche Marco Ferreri che mi aspettò a Cannes per bere un bicchiere insieme. Una lezione di vita: meglio condividere la gioia del vincitore che covare invidia da solo. Io ho apprezzato la prova di maturità di Moretti, lui m’ha detto che considera ‘Il mestiere delle armi’ uno dei miei film migliori. Ci siamo incontrati sul tema della morte. A un certo livello di riflessione non c’è più gara, nè cinema, c’è sintonia d’anime. Affinità elettive”. Schumi come Moretti a Montecarlo?
“Schumi comunque ha già vinto. Gli eroi vincono sempre, anche quando perdono una corsa o muoiono in battaglia. Anche il pilota della Minardi è un eroe”.  Luigi Garlando  – Gazzetta dello Sport

“Non c’è conflitto tra cultura e religione: a volte è più religione una cultura alla quale ci sottomettiamo attraverso idee codificate in un ambito che viene definito culturale, assoggettandoci a queste imposizioni.” E.O.

Versione italiana:

https://www.raiplay.it/video/2018/12/Genesi-Creazione-e-Diluvio-32381f8e-4df8-4db6-bf80-76282c16beb0.html

“Non sono mai stato comunista né democristiano e neppure socialista. Ritengo che quelli che chiamiamo intellettuali, che fanno dell’osservazione della realtà dei tentativi di interpretazione del mondo e delle cose, non possano appartenere a un partito. Il partito è la negazione dell’intellettualità libera.” E.O.

“Non precostituisco mai un argomento preciso per un film. Al contrario cerco di dimenticarmi il più possibile di me stesso, mi libero di tutto ciò che è precostituito, perché potrebbe diventare un limite” E.O.

“Se non apriamo le nostre case, compresa la casa più intima, che è il nostro animo, siamo solo uomini di cartone.” E.O.

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Il villaggio di cartone -2011photo by Kash Gabriele Torsello ©

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VITO MANCUSO SU “IL VILLAGGIO DI CARTONE”

Eccoci in una chiesa senza più simboli religiosi, ma che proprio per questo riscopre il suo senso e rivive la vera finalità per la quale è stata costruita, essere cioè ecclesía (termine greco formato dal verbo káleo, “chiamare”, e dalla preposizione ek, “da”), vale a dire tempo e luogo di raduno e di accoglienza in seguito a una chiamata. Se infatti vi fossero state ancora le panche allineate, non vi sarebbe stato posto per il villaggio di cartone, provvisorio rifugio dei clandestini e simbolo finalmente reale (grazie alla nascita di un neonato) della nascita clandestina del Figlio dell’uomo e che per questo fa riscoprire al vecchio prete la poesia di cantare piano in ginocchio Adeste fideles; se l’acquasantiera fosse stata ancora in funzione, non avrebbe potuto essere utilizzata per raccogliere l’acqua piovana che cola dal tetto e fornire da bere agli assetati secondo il comando evangelico; se ancora vi fosse stato una via vai di fedeli, molti di essi non avrebbero tollerato quell’accampamento nomade simile alle tende degli ebrei lungo il cammino nel deserto (“Quella è tutta gente diversa, non è come noi”, dice il sacrestano, personaggio simbolo della frattura spesso così dolorosa tra umanità e religione, tra essere cristiani ed essere cattolici, tra Vangelo e Catechismo) …

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Ci si potrebbe chiedere quale sarebbe mai questa chiamata che raduna in chiesa i clandestini, essendo la chiesa per loro semplicemente un rifugio come un altro, senza differenza alcuna rispetto a un magazzino dismesso o a una fabbrica abbandonata. Ma questa chiamata che costituisce l’ecclesía non è per loro, è per noi. È per quanti di noi occidentali (credenti, agnostici, atei, qui poco importa) sentono risuonare ancora nella coscienza la domanda rivolta dalla voce divina ai primordi dell’umanità: “Dov’è tuo fratello?” (Genesi 4,9). O se si preferisce: “Che ne è della fraternité?” (il più dimenticato tra gli ideali della triade rivoluzionaria del 1789).

Da almeno due secoli ormai stiamo vivendo un doloroso passaggio epocale. All’inizio è stato connotato come “morte di Dio”, intendendo con questa espressione il venir meno nella mente personale e sociale della certezza dell’esistenza di un fondamento oggettivo e immutabile dell’essere. La testimoniarono Hegel nel 1802 nello scritto Fede e sapere, Nietzsche nel 1882 con il celebre paragrafo 125 di La gaia scienza, Heidegger nel 1940 con il saggio La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», per arrivare infine ai nostri giorni attraversati da un desiderio di dissacrazione che muove molti pensatori e artisti contemporanei.

Noi però oggi possiamo constatare che in realtà non si tratta genericamente della “morte di Dio”. Si tratta, più specificamente, della morte del Dio “cristiano”. Uomini di altre culture e di altri paesi ci fanno comprendere che oggi nel mondo Dio non è per nulla morto, anzi al contrario la religione è un elemento indispensabile per la comprensione attuale del pianeta, come mostrano studi recenti (per esempio God is Back, New York 2009, di due giornalisti del settimanale “The Economist”) e la stessa esistenza di un osservatorio geopolitico come la “Tony Blair Faith Foundation”. Guardando il mondo nel suo insieme nessuno può dire che Allah sia morto, o che lo siano Vishnu e Shiva, o che lo sia il Buddha, e persino Confucio che sembrava scomparso ora è tornato in auge nei programmi degli educatori cinesi. Del resto, se si guarda il mondo nel suo complesso, neppure si può dire che sia morto il Dio cristiano, è solo guardando all’Europa che lo si può e lo si deve dire.

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Qui da noi la pratica religiosa è ai minimi storici (in Francia, per esempio, è al 4 per cento, in alcune zone della ex Germania est e dei paesi scandinavi ancora meno), i seminari sono vuoti, i conventi e i monasteri anche. È significativo che persino nella sua patria il papa risulti di gran lunga meno popolare del Dalai Lama, come rivela un sondaggio pubblicato dal settimanale “Stern” il 12 gennaio 2012 secondo cui appena il 32 per cento dei tedeschi vede in Benedetto XVI un modello, mentre il Dalai Lama lo è per il 69 per cento (traggo la notizia dal sito “Vatican Insider” del quotidiano “La Stampa”).
Una delle scene iniziali del film di Olmi mostra una gru in chiesa che, avviata con una sbuffata di fumo nero in faccia alla telecamera, rimuove il Crocifisso. In quel braccio meccanico è rappresentata la civiltà europea che non si riconosce più nei simboli tradizionali della sua religione, perché, prima ancora, non si riconosce più nella visione del mondo del cristianesimo tradizionale, imperniata filosoficamente sul paradigma del teismo e teologicamente sul paradigma dell’amartiocentrismo. Il problema quindi è la morte del Dio cristiano ed europeo, e della teologia dogmatica che ne rappresenta il pensiero.
Ma senza il richiamo dolce e severo della religione la mente occidentale è sempre più preda dall’ideologia appropriatrice dell’utilitarismo, simboleggiata nel film di Olmi dal braccio della gru e dalle guardie. La mente occidentale si ritrova incapace di contemplazione e di gratuità, di un rapporto di meraviglia con il reale che sia privo di interesse. Gli assoluti della nostra società sono l’economia e la sicurezza (l’azienda con la sua gru e la polizia con le sue guardie), economia e sicurezza concepite unicamente in funzione del tornaconto personale e per le quali non si esita a violentare la natura e a calpestare la solidarietà. Per questo nel film di Olmi coloro che esprimono la nostra società mediante un ruolo socialmente riconosciuto (gli operai, i funzionari della sicurezza e persino il sacrestano) risultano connotati negativamente. Non è una questione personale, è anzitutto e propriamente una questione sociale, nel senso che chi gioca il ruolo assegnatogli da una società utilitaristica non può che esprimersi in modo utilitaristicamente determinato.
“Cambiare il corso impresso alla storia o sarà la storia a cambiare noi”. Questa scritta costituisce l’ultimo fotogramma del film, prima della sigla finale con i titoli che scorrono sulle onde di un mare minaccioso. Che cosa significa cambiare il corso impresso alla storia? E come si fa? Non è stato forse ciò che hanno tentato il nazifascismo e il comunismo con l’esito che tutti conosciamo, compreso il terrorismo che ha insanguinato le nostre piazze e le nostre stazioni? O forse Olmi vuole invitare tutti a una conversione religiosa?
In realtà il suo messaggio è chiaro, è la religione per prima che deve cambiare. Essa stessa infatti nella sua presentazione tradizionale esprime la logica dell’utilitarismo, quando insegna per esempio che la rivelazione a Israele era finalizzata a Cristo, che Gesù doveva necessariamente morire per adempiere il disegno del Padre, che si riceve il Battesimo per eliminare il peccato originale, che partecipando ai sacramenti si acquistano meriti… Cambiare il corso impresso alla storia significa lottare contro la logica dell’utilitarismo che si ritrova anzitutto nella versione dogmatica del cristianesimo.

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Il fallimento delle ideologie novecentesche mostra infatti che si può cambiare il corso impresso alla storia solo andando a toccare le sorgenti più profonde dell’essere umano, come è avvenuto 20 secoli fa con la rivoluzione cristiana, o 25 secoli fa con la rivoluzione buddhista. Ovviamente oggi non si tratta di fondare una nuova religione o una nuova chiesa, né di giungere a un’unione sincretistica delle religioni esistenti; si tratta, molto più semplicemente e molto più radicalmente, di compiere quel movimento di rinnovamento che il grande teologo Raimon Panikkar chiamava conversione delle religioni: “Il momento in cui ci troviamo è cruciale per la vita umana e per il pianeta; è un momento che richiede in maniera particolare la conversione di tutte le religioni” (Raimon Panikkar, Tra Dio e il cosmo, Laterza 2006, p. 133). La necessità che il cristianesimo tradizionale si converta modificando in profondità la propria visione del mondo viene espressa nel film di Olmi dalla disperazione del vecchio prete. Le sue parole nella chiesa sconsacrata e vuota esprimono il sentire di molti: “Quando ancora la domenica queste panche si riempivano di fedeli, mi capitava di provare una sensazione di vuoto, che allora non capivo e solo adesso, di fronte a questa solitudine, mi rendo conto che quel vuoto era… il dubbio… dentro di me”. Ancora più sconsolate le parole che egli rivolge al medico agnostico quando rimpiange la sua gioventù e l’incrocio una sera di maggio con uno sguardo femminile: “Se quella sera… in chiesa … avessi fissato più a lungo quegli occhi, anche solo per pochi istanti… cosa sarebbe accaduto di me, della mia consacrazione di prete? Della mia vita?”. Giunge poi la frase più significativa del film, pronunciata dal prete tra le lacrime, simbolo di un’amara sconfitta esistenziale: “Ho fatto il prete per fare del bene… Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede”.

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Queste parole contengono la chiave della conversione che il cristianesimo tradizionale è chiamato a operare se vuole sopravvivere riprendendo a essere “il sale della terra”, e non una reliquia di un tempo che fu, passatempo di pochi nostalgici. Si tratta di convertire la forma della fede, la quale deve passare dal considerarsi accettazione intellettualistica di una dottrina (“la fede”), all’essere convinzione radicata nel primato del bene e della vita buona, esattamente secondo l’insegnamento di Yeshua ben Yosef: “Non chiunque mi dice ‘Signore, Signore’ entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Matteo 7,21). Il personaggio più simpatico del film di Olmi, il Bardo, dice straiato su una panca, in un intenso primo piano: “Io credo a DIO, e alla persona umana. La sapienza è stata creata dall’uomo: il segreto del mondo è la persona umana”. La persona umana che vive del bene e per il bene è il segreto del mondo.
Si tratta quindi di porre un nuovo fondamento spirituale: di passare da un fondamento statico a un fondamento dinamico, da un fondamento dottrinale (il depositum fidei del Catechismo) a un fondamento pragmatico (la caritas dei tanti villaggi di cartone). Si tratta di abbandonare il primato dell’ortodossia, per cui il credente è uno che crede determinate cose dette articula fidei e che obbedisce ossequiosamente alla gerarchia, e di promuovere il primato dell’ortoprassi, per cui il credente è uno che compie azioni non riconducibili all’utile e al proprio interesse ma rivelatrici di un più profondo e generativo inter-esse.
È rischiosa questa conversione richiesta al cristianesimo? Non è destinata a sfociare nel modernismo, nell’indifferentismo, nel relativismo? Come trascurare l’avvertimento del cardinale Joseph Ratzinger nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice il 18 aprile 2005: “Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”? Certo, rispondo, è rischiosa la conversione richiesta al cristianesimo tradizionale e nessuno ne può garantire l’esito. Ma, come risponde il vecchio prete al sacrestano: “Quando la carità è un rischio… quello… è il momento della carità”.
Se la nostra anima sarà in grado di superare questa tempesta, se riusciremo ad attraversare questa notte senza perdere la speranza del giorno, qualcosa di nuovo potrà nascere da noi e raccogliere ancora una volta i tempi e gli spazi dell’anima delle generazioni future in un nuovo calendario di senso spirituale e di energia vitale. Si tratta di interpretare con onestà e coraggio i “segni dei tempi” che Gesù invitava a decifrare con matura responsabilità: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?»” (Luca 12,54-57). Si tratta di giudicare finalmente da noi stessi anche le questioni spirituali.
In questa prospettiva l’accoglienza dei profughi clandestini nella chiesa è un evento cristico, mediante cui Olmi ha mostrato ancora una volta la potenzialità di relazione contenuta nell’ideale cristiano. Definisco “cristico” un evento (o una persona, o un’opera d’arte, o altre possibili esperienze) in grado di produrre il medesimo dinamismo del Cristo storico, cioè l’unione degli uomini con il senso del mondo (Dio) e tra di loro. Si dà logica cristica ogni qual volta si favorisce l’incremento della relazione armoniosa. E quando tale relazione armoniosa produce nell’anima un senso di unione con il senso del mondo (Dio) e con gli altri esseri viventi che lo abitano, appare ancora una volta la realizzazione di quella perfetta comunione di carne e di spirito incarnata nella figura del Cristo storico. Il Cristo giunge quindi a manifestarsi non come evento straordinario e inusitato, ma come perfetta realizzazione della logica-logos sottesa all’essere e in particolare all’essere umano, ovvero, per citare l’apostolo Paolo, come “il primogenito di molti fratelli” (Romani 8,29).

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Il film di Olmi è un film altamente cristiano, del cristianesimo umile e sublime, del cristianesimo vero, quello che sa che verrà un tempo, ed è questo, in cui si adorerà Dio “in spirito e verità” (Giovanni 4,24). Il primato dello spirito e della verità conduce alla presa di coscienza che è passato definitivamente il tempo della religione come risposta, e deve ricominciare il tempo della spiritualità come domanda; è passato definitivamente il pensiero di Dio come soluzione, e deve riprendere il senso originario del pensiero di Dio come interrogazione. Domanda e interrogazione di che?

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La nostra mente tende a incasellare la realtà a sua immagine e somiglianza ragionando sulla base del criterio dell’utile e del vantaggioso e producendo azioni conseguenti. È naturale che sia così, perché a un primo livello dell’animo siamo tutti mercanti e cerchiamo sempre di guadagnare. Il fenomeno umano però non è riducibile al solo mercato, il criterio dell’utile non ne esaurisce la realtà. Se si vuole comprendere l’uomo, e di conseguenza il mondo di cui l’uomo è frutto, occorre mettere in campo altre logiche, oltre quella dell’utilitarismo. C’è un di più di realtà per chi sa superare l’approccio al reale sulla base unicamente dell’utile, c’è un di più di realtà per chi sa andare al di là del suo animo mercantile. Siamo mercanti, è vero, ma possiamo essere anche cavalieri che vivono dell’ideale della lealtà e della giustizia prefigurato da un certo “mestiere delle armi”; possiamo essere poeti che esprimono il dramma e la meraviglia di una natura “albero degli zoccoli”, e possiamo essere sacerdoti che celebrano la sacralità della vita e delle relazioni quotidiane anche al modo laico di un “santo bevitore”.

Ecco Dio, non come risposta, ma piuttosto come domanda, grazie alla quale scavare nella profondità del nostro essere. Tale domanda rifiuta le rassicuranti risposte del primo livello della mente che riducono la realtà alla logica dell’interesse, e rimanda a un più profondo livello dell’essere. Rivolgendosi a noi come domanda, la parola “Dio” oggi può essere la sorgente di una nuova autentica comunità, richiamandoci nel modo più intimo alle profondità non mercantili del nostro essere.
In questa prospettiva si comprende il senso più vero dell’essere cristiani, imitazione di un Cristo che, scriveva Dietrich Bonhoeffer, è esistere-per-gli-altri: “Gesù «esiste per altri», esclusivamente. L’«esserci-per-altri» di Gesù è l’esperienza della trascendenza! Solo dalla libertà da se stessi, solo dall’esserci-per-altri fino alla morte nasce l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza… Il trascendente è il prossimo che è dato di volta in volta” (Appunti luglio- agosto 1944, in Resistenza e resa, San Paolo 1989, p. 462). Gesù è “figlio di Dio” non in virtù di qualità che lo rendono del tutto diverso e distante da noi, cioè nato da una vergine, capace di camminare sulle acque, di trasformare l’acqua in vino, di moltiplicare i pani e i pesci… ma in virtù del compimento delle legge suprema dell’essere che è la relazionalità, fino a collocare nella relazione assoluta dell’amore il senso ultimo dell’essere e della vita, e a giungere a identificarsi con i più deboli: “Ogni volta che avete fatto questo a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me”. E la Chiesa? La Chiesa gli sarà tanto più fedele quanto più i suoi fedeli si interrogheranno sulla qualità delle loro relazioni con gli altri: “Dov’è tuo fratello?”.
Uomini come Ermanno Olmi credono e si dicono cristiani perché sentono l’appello alla loro umanità che è contenuto nella figura del Cristo, e perché non riscontrano nulla di più nobile e di più alto di questo ideale di bene, incarnato in gesti e sentimenti umani. Questo è l’assoluto di cui vivono, l’assoluto di un’umanità capace di bene e di gratuità, superamento della logica dell’utile ed ingresso nel mondo della trascendenza che non conosce “volontà di potenza” ma solo desiderio di armonia.
Al termine della vita il vecchio prete domanda a se stesso: “E ora che cosa mi rimane?”. La sua chiesa è stata spogliata di tutti i simboli religiosi, privata della luce elettrica, chiusa al culto, ridotta a un edificio il cui unico senso è attendere la demolizione. Neppure un fedele è rimasto con lui. Disteso nel letto, ormai alla fine, il vecchio prete quasi si confessa con il medico ateo venuto a visitarlo.
Che cosa gli rimane? Gli rimane, secondo le sue stesse parole, la speranza di tornare a quella realtà che lui chiama “la casa del Padre”, sottintendendo dunque che è la medesima da cui proviene. E non è per nulla poco. Anzi forse è tutto. Che cosa può sperare un uomo della sua vita, alla fine, se non che ritorni a quella dimensione dell’essere da cui si è originata? Exitus- reditus, pensavano già gli antichi filosofi neoplatonici e i teologi cristiani che ne hanno ripreso l’orientamento. Tornare alla casa (reditus) da cui si è precedentemente usciti (exitus), e non per viaggio insensato e senza costrutto, ma per partecipare a questa passione drammatica e insieme piena di grazia che è la vita del mondo.

Vito Mancuso

“O cambiamo il senso impresso alla storia o sarà la storia a cambiare noi.” E.O.

UN FOGLIO BIANCO documentario sulla realizzazione de “Il villaggio di cartone”
.photo by Kash Gabriele Torsello ©

“Sui monumenti che ancora oggi ritraggono gli alti comandanti, bisognerebbe scrivere sotto: criminale di guerra”. ” E.O.

Torneranno i prati – 2014

NOTE DI REGIA:
Cento anni di storia che si allontanano sempre più nel passato mentre il fiume del tempo avanza sotto i ponti del progresso che inesorabilmente sbiadisce ogni altra memoria.
Tuttavia ci sono momenti in cui una data sul calendario, un titolo di giornale, una fotografia, smuovono ricordi sopiti che si chiamano tra loro, irrompono nel nostro tempo da protagonisti e giustamente pretendono d’essere riconosciuti e risarciti del loro valore speso per noi: primo fra tutti, la vita.
Mio padre aveva 19 anni quando venne chiamato alle armi. A quell’età, l’esaltazione dell’eroicità infiamma menti e cuori soprattutto dei più giovani.
Scelse l’Arma dei bersaglieri, battaglio ni d’assalto, e si trovò dentro la carneficina del Carso e del Piave, che segnò la sua giovinezza e il resto della sua vita.
Ero bambino quando lui raccontava a me e a mio fratello più grande, del dolore della guerra, di quegli istanti terribili in attesa dell’ordine di andare all’assalto e sai che la morte è lì, che ti attende sul bordo della trincea. Ricordava i suoi compagni e più d’una volta l’ho visto piangere.
Della 1a Guerra Mondiale non è rimasto più nessuno di coloro che l’hanno vissuta e nessun altro potrà testimoniare con la propria voce tutto il dolore di quella carneficina.
Rimangono gli scritti: quelli dei letterati e quelli dei più umili dove la verità non ha contorni di retorica.

Intervista inedita sulla guerra e la Resistenza di Elisabetta Sgarbi
Asiago 1978
cannes 1978

“Il futuro è una pagina bianca che vorrei avere ogni giorno a disposizione per non scriverci nulla, per un bisogno di totale libertà. Se vi tracciassi anche solo un segno, sarei condizionato dalle conoscenze che ho accumulato nella vita, mentre voglio essere libero come il bambino, quando nella prima infanzia non ha consapevolezza della realtà che avverte solo con l’olfatto. Come Adamo, prima che incominciasse a dare un nome alle cose. Un bicchiere, ad esempio, è un oggetto di cui tutti conosciamo la qualità e l’entità, ma prima ancora quel bicchiere è la nostra galassia, dentro ci vedo l’universo intero. È un bel gioco che faccio ogni giorno. Aver voglia di giocare a ottant’anni è già un bell’augurio.” E.O.

Intervista a Ermanno Olmi su Milano ’83 (2016)
Emanno Olmi su Milano

https://vimeo.com/322000733

TFF36
Ermanno Olmi – Saluto ai giornalisti per “Torneranno i Prati “- 2015

“La Edison per me era il mondo intero. L’azienda era vissuta davvero come una grande famiglia, quando ci si incontrava c’era il senso di essere parte di un tutto. La Edison mi ha accompagnato per un lungo periodo della mia vita, e se ci ripenso, la ricordo come fosse il mio paese.” E.O.

“Mille anni” di Ermanno Olmi 1994
Ermanno Olmi – La diga sul ghiacciao -1953
Ritorno al paese – Mario Rigoni Stern -di Ermanno Olmi
Ermanno Olmi – Michelino 1ma B – 1951
Ermanno Olmi – LA COTTA -1967
Ermanno Olmi – LE GRANDE BARRAGE – 1961
Film girato da Ermanno Olmi durante l’allestimento della mostra di Jannis Kounellis, “Atto unico”. Si tratta, come Olmi stesso ha scritto, di un piccolo “film-pedinamento”, di una “risonanza di immagini che ancora persistono nella memoria come alla fine di un bellissimo viaggio; una giostra delle suggestioni piu’ coinvolgenti, bagliori fissati nella mente che tornano e si ricompongono secondo una libera consequenzialita’ di tempo”.

“Durante l’inverno, presso una grande diga vicino all’Adamello sono rimasti soltanto due guardiani. Uno di loro scende a valle: lo dovrebbe sostituire un compagno che, improvvisamente, in seguito alla nascita di un figlio, è costretto a ritornare a casa. Il suo posto viene preso da Roberto, un giovane studente che ha accettato di andare lassù, dove avrà tutto il tempo di prepararsi per gli esami. I rapporti tra lo studente e Natale, il rude montanaro di cui è divenuto il collega, sono sulle prime caratterizzati da un certo imbarazzo; ma a poco a poco l’atmosfera si sgela e Natale è felice di insegnare al giovane sprovveduto quello che lui ha imparato dall’esperienza della vita. Quando i disagi a cui Roberto non è abituato e la troppa solitudine gli provocano degli accessi di febbre, è proprio Natale a curarlo amorevolmente. Quella vita serena, a stretto contatto con la natura, lontano dalle raffinatezze e dal tumulto della civiltà, tra le candide distese nevose e così vicini alle cime delle montagne, in un silenzio assoluto, interrotto soltanto dalle loro voci: tutto questo dà veramente l’impressione che il tempo si sia fermato.”

Un ragazzo perbene nella Milano degli anni sessanta affronta una selezione  per trovare lavoro presso una grande azienda, e con esso un “posto fisso”, mito dell’epoca del boom. Durante l’esame, il protagonista conosce una ragazza: sono attori non professionisti, lui nel film si chiama Domenico (Sandro Panseri), lei Antonietta (Loredana Detto)  che qualche anno più tardi sarebbe diventata la moglie di Olmi.

Tullio Kezich in “Il Posto”
Ermanno Olmi – E VENNE UN UOMO – 1965 – Sulla traccia delle note personali da Papa Giovanni XXIII lasciate nel “Giornale dell’anima” e riproposte allo spettatore da un personaggio che funge da Mediatore, il film presenta della vita del Sommo Pontefice ambienti ed episodi di particolare significato: il Parroco di Sotto il Monte, la madre, il padre, l’ambiente familiare e quello paesano; l’entrata in Seminario, l’ordinazione sacerdotale, il periodo passato a Bergamo come segretario dell’allora Vescovo Mons. Radini-Tedeschi. Quindi i dieci anni vissuti in Bulgaria come visitatore apostolico, gli anni passati in Turchia e Grecia come delegato apostolico, la nunziatura a Parigi, il patriarcato a Venezia, ed, infine, l’elezione al Pontificato.
Ermanno Olmi esprime il proprio punto di vista sull’addio al soglio pontificio di Joseph Ratzinger,sulla crisi della Chiesa cattolica e lo stallo post-elettorale.

Olmi took a turn into Chaplin-esque whimsy with this rarely screened tragicomic fable about an eccentric mapmaker with a most unusual hobby: conferring phony aristocratic titles, complete with custom-made coats of arms, upon ordinary people in whom he detects a certain nobility. It’s a curious avocation that leads to both unexpected human connection and serious legal trouble when his lofty fantasies bump up against harsh reality. The closest Olmi came to pure comedy—delicate and bittersweet as it may be—In the Summertime achieves a touching poignancy thanks to the director’s abiding affection for the good-hearted outsiders of the world. 35mm print from Istituto Luce Cinecittà.

Ermanno Olmi – DURANTE L’ESTATE – 1971
Ermanno Olmi – I RECUPERANTI – 1969

Lungo il fiume

Down the River
by Ermanno Olmi Documentary Italia 1992 81′

This documentary is an exploration that accompanies the course of the river Po from its source on the Monviso all along across the vast plain. A look onto the river and the world surrounding its banks, cadenced by the words of St. John’s Gospel so as to evoke a parallelism between the waters’ revitalizing force and divine grace. Documentary-maker with the ability to comprehensively observe and describe the world. Devising the ecological gimmick of a journey along the longest Italian river with an unseen perspective, Olmi seizes with deep sensitivity the relation between man, nature and the supernatural.

Artigiani Veneti stato realizzato grazie al contributo della Regione Veneto, Assessorato all’economia e lavoro; Produzione GB Voci di Bassano del Grappa, Fotografia Maurizio Zaccaro, Suono Attilio Torricelli, Montaggio Fabio Olmi

GLI ARTIGIANI

Gianfranco Albertini (vetro), Vittorio Amadi (barche), Primo e Secondo Antiga (giunchi e rattan), Enrico Antonello (impagliatore), Orlando Antonello (impagliatore), Giampalo Babetto (orafo), Giuseppe Baccega (tintore), Vittorio Banzato (mobili d’arte), Bruno Barbon (impagliatore), Toni Benetton (ferro battuto), Fam. Biasibetti (scopa e faggina), Carlo Bonato (scultore), Renata Bonfanti (tessitura), Giovanni Brunello (cuchi terracotta), Osanna e Rodolfo Brustolin (fonderia), Gianfranca Casaolo (vetri piombati), Giuseppe Carli (maestro d’ascia), Gianni Cavalier (indoratore), Giorgio Clanetti (maschere), Fam. Colbacchini (campane), Fam. Corriani (ferro), Florio Dal Bello (restauro mobili), Armando Fantinato (battitore rame), Angelo e Franco Arinon (marmo), Renzo Ferro (vetro), Antonio Gallina (liutaio), Giovanni Giuponi (maestro d’ascia), Giuseppe Oraser (orafo), Antonio Lago (maniscalco), Sergio Lucarello (tappezziere), Secondo Lucchi (occhialeria), Adriano Miani (restauro), ZanottoNicoli(ceramista),BeppePastrello(burattinaio),LuigiPerotta(sarto),GiorgioPiccoliori(intagliatore),Piazzesi(legatoria),LeoneRamigni(sartopellicciaio),F.lliRuffati(organari),AntonioSalvadori (vetro), Pino Signoretto (maestro vetraio), Carlo Stringa (ceramiche), Alessio Tasca (ceramista), Aurelio Titotto (fabbro), F.lli Todesco (marmisti), Toso e D’Alpaos (arte vetro), Fornace Vivarini (vetri), Zacchi e Milani (ricamo), Marco Zorzetto (calzolaio), Tessoria Asolana (tessuti), Le merlettaie di Burano, Gli artigiani di via S. Pietro a Padova

LA BIBBIA I MESTIERI MANUALI

La sapienza dello scriba sta nel piacere del tempo libero, chi si dedica poco all’attività pratica diventerà saggio. Come potrà divenire saggio chi maneggia l’aratro e si vanta di brandire un pungolo, spinge innanzi i buoi e si occupa del loro lavoro e parla solo di vitelli?
Dedica il suo cuore a tracciare solchi e non dorme per dare il foraggio alle giovenche. Così ogni artigiano e costruttore che passa la notte come il giorno:
quelli che incidono immagini per sigilli e con pazienza cercano di variare le figure, dedicano il cuore a riprodurre bene il disegno e stanno svegli per terminare il lavoro. Così il fabbro che siede vicino all’incudine ed è intento al lavoro del ferro: la vampa del fuoco gli strugge le carni, e col calore della fornace deve lottare; il rumore del martello gli assorda gli orecchi, i suoi occhi sono fissi sul modello di un oggetto, dedica il suo cuore a finire il lavoro e sta sveglio per rifinirlo alla perfezione. Così il vasaio che è seduto al suo lavoro e con i suoi piedi gira la ruota, è sempre in ansia per il suo lavoro, si affatica a produrre in gran quantità. Con il braccio imprime una forma all’argilla, mentre con i piedi ne piega la resistenza; dedica il suo cuore a una verniciatura perfetta
e sta sveglio per pulire la fornace.

Tutti costoro confidano nelle proprie mani, e ognuno è abile nel proprio mestiere. Senza di loro non si costruisce una città, nessuno potrebbe soggiornarvi o circolarvi. Ma essi non sono ricercati per il consiglio del popolo, nell’assemblea non hanno un posto speciale, non siedono sul seggio del giudice
e non conoscono le disposizioni della legge. Non fanno brillare né l’istruzione né il diritto, non compaiono tra gli autori di proverbi, ma essi consolidano la costruzione del mondo, e il mestiere che fanno è la loro preghiera.”

“Mantegna non ha mai mostrato il quadro a nessuno, soltanto alle persone intime. Ci siamo trovati a dover vivere una contraddizione: un quadro fatto per non essere visto collocato in una sede museale dove si va per i quadri che vogliono essere visti.”
Ermanno Olmi

Il documentario, ultimo lavoro di Ermanno Olmi, racconta il percorso umano di Carlo Maria Martini, a partire dalla sua morte avvenuta all’Aloisianum di Gallarate nel 2012, per tornare subito alla sua nascita, a Torino nel 1927, e da lì attraverso immagini di repertorio, le parole del cardinale, e spezzoni da film dello stesso Olmi, scorre con sorprendente delicatezza l’esemplare storia di un uomo, che è anche una storia italiana: il fascismo, la democrazia, l’iniziazione di Martini presso i Gesuiti, gli anni di piombo e l’assassinio di Aldo Moro, Giovanni Paolo II, Tangentopoli, un giovane Silvio Berlusconi, la pedofilia nella Chiesa cattolica, la crisi del capitalismo, il ritiro di Martini a Gerusalemme.

“La moviola ” is made for the 70 Future Venice Reload. 70 directors who made the recent history of the Venice Film Festival celebrate the anniversary offering a short film.


“Cosa può esserci di più importante dell’accoglienza? Vorrei ricordare ai cattolici, e io sono tra questi, di ricordarsi più spesso di essere anche cristiani. Il vero tempio è la comunità umana.”

ERMANNO OLMI

“Addio a Olmi, cantore degli ultimi”
Corriere della Sera, 8 maggio 2018
Gian Antonio Stella

Era il regista degli ultimi. Ha raccontato l’italia contadina e quella operaia. Ermanno Olmi è morto, ieri, dopo una lunga malattia. Aveva 86 anni. Con «L’albero degli zoccoli» conquistò la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1978.

“Con Gesù non ho mai potuto barare perché, al di là del fatto religioso, la testimonianza di Cristo mi imbarazza: ha compiuto gesti con cui fare i conti per sempre”

Ermanno Olmi è volato via, lasciandosi dietro una scia di ricordi, di immagini, di amore. Il nonno Anselmo, che «quand’era giovane si arrampicava su su fin sulla cima d’un eucalipto e ondeggiava nel vuoto cantando a squarciagola alla sua Bettina». E la zia stramba che s’era inventata ridendo una preghiera satanella in stretto bergamasco: «Sö ol sòcol / zò ol sòcol / sö ol sòcol / zò ol sòcol », su lo zoccolo, giù lo zoccolo. E lo scolaretto che, dando ragione a Lev Tolstoj e alla sua convinzione sulla purezza della lingua dei bambini («ah, potessi scrivere come loro!») compose un giorno la poesia perfetta: «Niente alberi niente fiori. Niente fiori niente ciliegie. Niente ciliegie niente bambini».

Il grande regista è morto ad Asiago, dove aveva deciso di vivere fin dal ‘59 in una casa un po’ fuori mano verso il monte Zebio, a ridosso del bosco di scoiattoli e caprioli. Era andato lì per lavorare con Mario Rigoni Stern alla sceneggiatura del film Il sergente nella neve che poi non avrebbero più fatto: «A un certo punto, dal basso di una collinetta, sopra un denso strato di nebbia si apre un squarcio di luce, un lucore come d’ incanto — scriverà anni dopo Paolo Di Stefano —, Olmi alza gli occhi, raccoglie un sasso dal selciato, lo tira verso l’alto e lo lascia cadere poco più in là: “Se un giorno mi sposerò e avrò figli, farò la casa lì”. Anche Rigoni si china a prendere una pietra, la butta a pochi metri e dice: “Vegno anca mì, in piassa massa confusiòn”». Troppa confusione. Tanto più per quelli che, teorizzerà l’ermanno (coinvolgendo nello stesso progetto, in una terza casa, lo sceneggiatore e storico del cinema Tullio Kezich), amano i silenzi: «Che bello se avessimo l’umiltà di accettare il silenzio come la forma più alta di comunicazione. Ci sono silenzi, come dice il teologo Raimon Panikkar, che valgono come tutte le parole del mondo».

Il silenzio che sperava di trovare nella grande steppa russa, dove si era incaponito di andare per girare il nuovo film che aveva in mente sulla grande pianista russa Marija Judina e sulla notte in cui Stalin, sentito alla radio il suo «Concerto K 488 di Mozart» fece telefonare per aver subito il disco «ma il disco non esisteva e così, per non urtare il despota, decisero di farlo apposta recuperando nella notte musicisti e maestranze e lavorandoci fino all’alba».

Il tiranno, riconoscente, mandò all’artista ventimila rubli. Un’enormità. «La ringrazio — rispose Marija —. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado». L’ermanno aveva deciso: «Vado». A 86 anni, malandato, in treno e in camper. In volo no? «Devo sentire l’odore della steppa».

Non ce l’ha fatta. Nato a Bergamo («in un quartiere chiamato Malpensata…») ma cresciuto alla Bovisa e a Treviglio («chiedevo: perché ho i capelli così rossi? “Sei nato sotto a un pomodoro”»), era figlio d’un ferroviere ucciso da una bomba quando lui era ancora ragazzino e di una donna di grande spirito e ironia: «Mi prendeva in giro: “Voglio più bene a te che a una nidiata di topi”». Studente così distratto da lasciare gli studi (si sarebbe rifatto con un po’ di lauree ad honorem) ma lettore onnivoro, cominciò a lavorare da «fornaretto». «Si cominciava a mezzanotte e si finiva a mezzogiorno. Per dodici ore di lavoro mi davano un chilo di pane. Dirlo adesso sembra una miseria. Allora era una grazia della Provvidenza. Ci vuole rispetto, per il pane».

Anche in Torneranno i prati, l’ultimo film sulla Grande Guerra girato in Val Formica nell’inverno 2014 tirando moccoli al mulo che affondava nella neve («Non ci sono più i muli d’una volta! Quelli salivano su coi cannoni. Questi sono cocchi di mamma. Mollaccioni!») c’è un omaggio al cibo della Provvidenza. Il soldatino che prima d’uscire dalla trincea per esporsi alla morte bacia un pezzo di pane e se lo infila nella giubba. Sul cuore.

Assunto ventenne alla Edisonvolta, ci restò vent’anni. In gran parte passati all’«organizzazione del tempo libero». Dove cominciò a girare documentari industriali. Via via più belli. Pieni di poesia. Fino al primo film, Il tempo si è fermato. Poi Il posto, dove la parte principale era affidata a Loredana Detto, che sarebbe diventata la compagna di tutta la vita e la madre dei suoi tre figli. Donna bella, minuta e forte. Vicina sempre, fino all’ultimo.

Girò L’albero degli zoccoli, forse il suo capolavoro poetico col quale conquistò Cannes e la fama mondiale, partendo dai racconti che leggeva ai suoi bambini. Parlavano della sua infanzia e «loro ascoltavano queste storie come se appartenessero a un mondo lunare: le veglie nella stalla, il lavoro, il rapporto d’affetto con gli animali. Ne erano estasiati». A chi levava il sopracciglio parlando d’«una operazione nostalgica» diceva che sì, narrando di storie «sue» le accarezzava «con un po’ di «tenerezza» ma «nostalgia non significa rimpianto». Se non per la «profonda solidarietà tra gli uomini» di quel mondo contadino perché, «come diceva Giovanni XXIII, solo i poveri sanno capire i poveri».

Catalogato negli schemini come «regista cattolico», forse per i temi che toccava o le amicizie cui teneva come quella con Giovanni Ravasi, rifiutava l’etichetta: «Ho sempre fatto una gran fatica a credere in Dio. E con Dio ho anche barato, ponendogli delle domande e poi dandomi delle risposte da solo, risposte che erano come quelle dei bambini quando giocano con la propria coscienza. Ma con Gesù non ho mai potuto barare perché, al di là del fatto religioso, la testimonianza di Cristo (non parliamo del Figlio di Dio ma dell’uomo) non fa che imbarazzarmi continuamente. Non riesco a togliermi dai piedi uno come Gesù Cristo, che ha compiuto dei gesti con cui dobbiamo fare i conti tutta la vita. È la vita che mi aiuta a concepire il desiderio di Dio, perché non potrei neppure concepire Dio se non amassi la vita. La grande gioia della vita umana qual è? Che l’uomo è la sola creatura in grado di stupirsi di fronte alle meraviglie del mondo. La gioia di vivere, questo stupore, ecco cosa mi aiuta a credere in Dio».

Amico del cardinale Martini, al quale dedicò l’ultimo documentario scritto con Marco Garzonio, profondo ammiratore di Papa Francesco, spiegava che se avesse fatto un film su Gesù gli sarebbe piaciuto ispirarsi a don Milani. Che immaginava «un Cristo che per tutto il film non si capisse dove fosse e spingesse lo spettatore a cercarlo per poi trovarlo solo alla fine». Amava Milano ma non la riconosceva più: «Prova a gridare in Piazza del Duomo: “Sono innamorato!”. Ti ignorano».

Quando lo colpì il male, quello che Curzio Malaparte chiamava «lo stramaledetto», reagì come meglio poteva. Raccontava della sua locanda preferita e dell’amica Loriana che «quando ha saputo che non potevo esser da lei per l’ultimo dell’anno si è messa a piangere e ha detto: “allora gli mando a casa la gallina bollita”». E poi del mitico Baffo di Cesuna che diceva sempre «fin che c’è vita c’è vacanza» e fece stampare il proprio necrologio «Non potendo partecipare personalmente al mio funerale…». E del vecchio Toni Lunardi, detto «Toni mato», che «sapeva sì e no leggere e scrivere ma aveva una capacità omerica di narrare storie fantastiche». E di un viaggio aereo di Ignazio Buttitta rotto da grandi risate: «Era Buttitta che parlava con un mongolo. Lui parlava solo siciliano, l’altro solo mongolo. E si divertivano da matti. Non è la squalifica della parola: è riconoscere che la parola ha dei limiti. E oltre questi limiti c’è la poesia».

Era un uomo buono. Gentile. Che si faceva voler bene. Quando sentì avvicinarsi la fine e arrivò l’inverno, confidò: «Sento scorrere dentro la mia vita. Ma sono sereno». Sperava di andarsene come ne La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth: «Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella». Non gli è stato concesso. Dopo mesi spossanti di flebo e sospiri, all’arrivo della primavera quando i pascoli asiaghesi cominciano a vestirsi di giallo, era riuscito a farsi portare sul terrazzo dietro casa. Voleva vedere se dal boschetto sarebbe sbucato a cercarlo, zampettando sulla staccionata, il solito scoiattolino. Mancherà anche a lui.

( Maurizio Zaccaro © 2019)

“Guardo fuori dalla finestra e vedo il paesaggio tutto sommerso dalla neve, che quest’anno è caduta in abbondanza. Qui da noi, in montagna, la neve segna il riposo invernale della natura e il manto rimane candido e intatto fino a primavera. Intorno a casa vedo segnate le tracce degli animali che dal bosco escono in cerca di cibo. Fra tutte, riconosco quelle di uno scoiattolo che è diventato amico. Oramai si fida di noi e ogni giorno, da quattro anni, viene a prendersi dalle nostre mani una noce, un pezzo di pane secco e qualche volta persino un biscotto. Lui, in cambio del cibo, si lascia accarezzare. Una gioia grande, che non costa nulla. Perché la felicità, quella vera, che riempie il cuore, è sempre gratis. Forse questi momenti di amichevole condivisione del cibo con ogni creatura del Creato somigliano un po’ a quel giardino di Eden che, per peccato di superbia, abbiamo tradito. Allora il castigo fu il dover lavorare la terra per vivere. Oggi, coltivare la terra con una nuova consapevolezza, del reale valore, potrebbe essere il migliore dei progetti per riconquistare un nuovo Giardino di Eden.” Ermanno Olmi